CORRIERE DELLA SERA – 14 gennaio 2019 –
L’ECONOMIA
Al primo posto ci sono le aziende del lusso globale, perché da noi c’é il culto del bello. Ma anche auto, finanza, industria cercano dirigenti italiani. Tra le loro qualità, la «capacità di gestire il caos»
Giovanna Brambilla é lapidaria. Quando le si chiede come mai si vedano sempre più manager italiani alla guida digruppi a proprietà estera la sua risposta é molto semplice. «Perché sono bravi». Brambilla é amministratrice delegata di Value Search e il suo lavoro di ogni giorno é quello di cercare la persona giusta per una determinata società.
Dietro a questo «essere bravi» ci sono molte cose. Per esempio, un sistema scolastico che ha eccellenze, come riconoscono gli stessi uomini e donne che raggiungono il vertice. E, poi, la capacità di affrontare questioni com- plesse. Per usare le parole di Andrea Pontremoli, ex presidente e amministratore delegato di Ibm Italia e oggi ceo dell’emiliana Dallara, «noi italiani siamo i migliori a gestire il caos». E il caos non tocca più solo il nostro Paese — seppure, certo, non manchiamo — ma tutto il mondo. Una società sempre più fluida e, al tempo stesso, con un numero sempre maggiore di barriere da superare. Parlando con L’Inkiesta Pontremoli aveva spiegato che «oggi non è più l’epoca in cui il pesce grande mangia il pesce piccolo. Oggi è l’epoca in cui il pesce veloce mangia quello lento. E noi siamo pure creativi».
Competenze
Secondo Michele Parisatto, managing partner Kpmg «i manager italiani di solito hanno uno stile di leadership più soft rispetto all’approccio strutturato del mondo anglosassone. Questo è sempre più apprezzato dalle aziende multinazionali perchè può favorire il dialogo tra culture anche molto diverse tra loro creando un terreno comune di valori e linguaggi. La capacità di adattamento, l’orientamento al problem solving, lo spirito di squadra unito a un know how gestionale solido, a una certa imprenditorialità e a solide competenze, garantiscono spesso di ottenere performance di eccellenza all’interno di aziende globali. Si tratta di caratteristiche che sono importanti specialmente in contesti di trasformazione o dopo processi di fusione».
Non è, dunque, un caso che sia proprio nel campo della creatività che si trovi la maggior concentrazione di nomi al top. I due colossi francesi Lvmh (Arnault) e Kering (Pinault) parlano decisamente italiano. Le società della famiglia Arnault schierano, per esempio, Antonio Belloni, da anni braccio destro del fondatore Bernard, oltre a Piero Beccari (ceo) e Maria Grazia Chiuri (designer) in Dior. I marchi della famiglia Pinault, vedono in prima linea Marco Bizzarri (ceo) e Alessandro Michele (designer) in Gucci e Francesca Bellettini, ceo Saint Laurent. Vale lo stesso nel mondo anglosassone. Il principale brand inglese Burberry ha come ceo Marco Gobetti e Riccardo Tisci come designer. E un amministratore delegato italiano è l’autore del rilancio dell’americana Tiffany: Alessandro Bogliolo.
Proprio Bogliolo, parlando con L’Economia, spiegava la forte presenza di manager italiani nel lusso con la cultura del nostro Paese. «Negli Stati Uniti o in Asia se si chiede a un giovane che cosa vuole fare — aveva detto — è chiaro che ha il sogno del garage in California e di creare Facebook. Mentre in Italia, come in Francia, c’è una forte cultura del lusso e del bello ed è più facile che uno aspiri a diventare Armani o Valentino». In America è recente il caso di Giovanni Caforio (il suo ritratto nella pagina a fianco) che in Bristol-Myers Squibb ha rilevato le consegne di un altro italiano, Lamberto Andreotti (a lungo uno nella classifica dei manager italiani più noti all’estero). In Apple è da tempo, invece, noto il ruolo di Luca Maestri, Senior Vice President e Chief Financial Officer, che risponde al ceo Tim Cook. Così come quello di Fabrizio Freda, ceo Estée Lauder, primo manager non familiare di un’azienda nata nel 1946 e tra i top manager più pagati al mondo secondo Forbes.
Anche l’industria dell’auto ha dato e continua a dare soddisfazioni a manager nati in Italia. È il caso di Luca De Meo, attuale presidente di Seat, la casa spagnola di Volkswagen, gruppo tedesco nel quale era entrato nel 2009 proveniente da Fiat (dove era arrivato proveniente da Toyota e Renault). O di Daniele Schillaci, executive vice president, global marketing and sales di Nissan (anche nel suo curriculum ci sono Renault, Fiat e Toyota). L’inizio di questo 2019 è stato anche l’inizio di una nuova avven- tura professionale per Andrea Orcel, neo amministratore delegato della banca spagnola Santander. Orcel arriva da un altro gruppo internazionale, Ubs, dove era presidente di Ubs Investment bank. Nella finanza, che ha spesso visto italiani in posizione chiave in gruppi mondiali, va registrato il nome di Mario Greco, da quasi tre anni amministratore delegato del gruppo assicurativo svizzero Zurich, dopo aver guidato l’italiana Generali. È di pochi mesi fa, invece, la nomina di Stefano Bortoli ad amministratore delegato di Atr, la società italo-francese leader nel settore dei velivoli turboelica da trasporto regionale (gli azionisti sono Leonardo e Airbus). Tra le nomine recenti in campi a forte evoluzione, quello di Gianpiero Lotito, nuovo presidente di European Tech Alliance, l’associazione delle imprese tecnologiche. Lotito, fondatore nel 2010 della start up FacilityLive, raccoglie il testimone dal fondatore di Skype, Niklas Zennstrom.
C’è chi esce
Qualcuno, invece, se n’è andato. L’addio che più ha lasciato il segno è stato quello di Vittorio Colao come capo mondiale di Vodafone. Un annuncio giunto inaspettato lo scorso maggio. «È stata una decisione difficile ma giusta — ha detto Colao, che era entrato nel gruppo dieci anni prima —. Vodafone sta entrando in un nuovo capitolo della sua storia». Al suo posto è andato Nick Read, che era Cfo di gruppo, carica in capo oggi a una manager italiana, Margherita Della Valle.
Sono solo alcuni dei nomi, ovviamente. Al ragionamento va anche aggiunto il fatto che stare in Italia è difficile. «Abbiamo un problema di sistema che si complica sempre di più, pensiamo solo peso che avrà la fatturazione elettronica per le piccole e medie imprese», dice Brambilla. Ci manca ancora la cultura (vera) del merito. Le aziende grandi sono poche. Le retribuzioni (intese in senso complessivo, non solo al top) differenti. «Le condizioni economiche all’estero sono molto diverse e i percorsi di inserimento sono strutturati e fanno intravedere percorsi di sbocco». Ecco perché se prima molti iniziavano in Italia e poi andavano all’estero, oggi i più partono subito da oltre confine.
Maria Silvia Sacchi